Ravenna bizantina: una città ricca di storia

Non sono molte le città che possono vantare di essere state “capitale” in ben tre occasioni: dell’Impero Romano d’Occidente (402 – 476), del Regno degli Ostrogoti (493 – 553) e dell’Esarcato bizantino (568 – 751). Una visita ricca di storia.

Ravenna è una città unica. Sì, d’accordo, è una bella cittadina ricca di spunti per una passeggiata domenicale o per un sabato immersi nel suo “provincialismo intelligente”, Romagna in odor di Veneto, belle strade e il mare a due passi che quasi si sente il frangersi delle onde. Ravenna è anche città industriale e un nodo nevralgico tra l’Adriatico e il Nord Italia. Ma Ravenna è molto di più e i suoi monumenti vanno apprezzati e interpretati conoscendone la storia che c’è dietro.

Per farlo dobbiamo tornare indietro di parecchio – al VI secolo dopo Cristo, al tempo dell’impero di Giustiniano – per accorgerci che qui ci sono cose uniche, a meno di non voler fare un salto a Istanbul, che a quel tempo era Costantinopoli. Qui sono evidenti le tracce che l’arte bizantina ha lasciato, un giro di boa epocale nella rappresentazione della realtà, e in definitiva di come l’uomo si pone di fronte al mondo, rispetto alla Roma classica.

Se prima di allora si cercava di riprodurre fedelmente la natura, adesso si cerca di andare oltre. Lo spazio non ha più profondità, non ci sono più figure a tre dimensioni, cose e persone diventano ultrapiatte. Niente più movimento, i gesti sono cristallizzati e ripetitivi. L’espressione dei volti è grave e solenne. Lo sfondo è uniforme, d’oro abbagliante. Le figure non poggiano su nulla, sembrano galleggiare nell’aria. L’arte parla per simboli e rimanda a esperienze che non sono di questo mondo.

Chi arriva da sud lungo la costa adriatica con la statale n.16 incontra nella pineta, a cinque chilometri da Ravenna, quel gioiello d’arte bizantina che è la basilica di Sant’Apollinare in Classe. “Classe”, nel senso di “flotta”, è il nome dato alla città dai romani al tempo di Augusto, quando Ravenna era la base operativa per il controllo militare dell’Adriatico e del Mediterraneo orientale. L’interno del tempio è dominato dai mosaici dell’abside che hanno colori vivaci e luminosi, a contrasto con le pareti spoglie del resto dell’ambiente. In alto, la figura di Cristo appare nel centro di un medaglione circolare. Ai lati, in un mare di nubi stilizzate, appaiono i simboli alati degli evangelisti: l’Aquila (San Giovanni), l’Uomo alato (San Matteo), il Leone (San Marco), il Vitello (San Luca).

La simbologia prosegue nella zona sottostante: ai lati, due città circondate da mura di pietre preziose rappresentano Betlemme e Gerusalemme. Ne escono dodici bianchi agnelli: sono gli apostoli. Altri simboli sono le due palme, a rappresentare la giustizia, mentre dalla volta del cielo spunta una mano: quella di Dio. Questo gioco di significati nascosti potrebbe apparire un’esercitazione arida se l’artista non fosse riuscito a infondere in tutta l’opera una straordinaria suggestione mistica. Da non dimenticare che opere come questa basilica hanno trasmesso il modo bizantino di fare arte ad altri centri italiani, in primo luogo a Venezia. L’arte italiana, comunque, avrebbe preso nel Medioevo tutt’altra strada con il ritorno all’imitazione della natura: forse è per questo che i capolavori dell’arte greco-bizantina di Ravenna possono apparirci non solo antichi, ma anche piuttosto esotici.

Risale allo stesso periodo la basilica di San Vitale, che offre al visitatore la vista di splendidi mosaici. Quello più celebre rappresenta la corte imperiale, con Giustiniano e l’imperatrice Teodora. La basilica è situata non lontano dal mausoleo di Galla Placidia. Tornando a questo monumento, di circa un secolo anteriore, i suoi mosaici segnano il passaggio fra l’arte romana e quella bizantina, e forse sono opera sia di artisti greci, sia di romani. Di gusto romano sono, per esempio, le figure non appiattite né stilizzate di San Lorenzo e del Buon Pastore: Cristo è rappresentato senza barba e circondato da pecore tutte rivolte verso di lui. È probabile che Placidia abbia fatto costruire l’edificio come parte di una chiesa in seguito demolita. Non è considerato attendibile invece che l’Augusta sia stata sepolta nel suo mausoleo: tra l’altro, poco prima di morire, aveva fatto trasferire da Milano a Roma i resti del padre per collocarli in una cappelletta sotto San Pietro. È verosimile che lì abbia trovato riposo anche quanto restava di una vita travagliata come la sua.

Un monumento unico nel suo genere è il mausoleo di Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti, il cui dominio si estendeva su tutta l’Italia e oltre. A pianta ottagonale, è costruito con blocchi di pietra d’Istria. Le decorazioni derivano da motivi dell’oreficeria germanica. L’elemento più sorprendente è la copertura: una calotta ricavata da un singolo, gigantesco blocco di pietra, di undici metri di diametro e del peso di 300 tonnellate, trasportato via mare da Aurisina, presso Trieste, fino a Ravenna. Un simbolo di forza titanica, apprezzato nell’ambiente militare germanico del tempo.

Piace soprattutto ai ravennati, la Rocca Brancaleone, per l’occasione che offrono i suoi magnifici giardini di fare passeggiate nel verde, ricco di alberi secolari. Si tratta di un formidabile complesso difensivo costruito dal 1457 al 1470 dalla Repubblica di Venezia che aveva conquistato Ravenna nel 1441. Consiste in una cittadella cinta da mura, a protezione degli alloggiamenti per la truppa, magazzini, officine degli armieri, scuderie e quanto altro avrebbe consentito di sostenere un lungo assedio. All’interno, il ridotto, formato da quattro torrioni collegati da una seconda cerchia di mura protette da un fossato, costituiva una seconda linea di difesa, nel caso la prima avesse ceduto. Nel primo decennio del Cinquecento la Rocca fu teatro di due fatti d’arme: le cose si misero male per i veneziani che perdettero Ravenna. Nel Seicento la Rocca, ormai superata dallo sviluppo dell’artiglieria, venne lasciata in abbandono. Per i ravennati diventò una risorsa non trascurabile: una generosa cava di mattoni.

La figlia dell’ultimo imperatore
Si rimane lì, a bocca aperta e con il naso all’aria, a contemplare quelle 570 stelle d’oro che brillano nel cielo blu cobalto della cupola. 

Siamo nel luogo più magico di Ravenna, il mausoleo di Elia Galla Placidia. Che di mausoleo ha il nome, certo non l’imponenza. Visto dall’esterno, anzi, è un piccolo edificio di mattoni senza pretese. Dentro ti avvolge in un’atmosfera di sensazioni rare. Ma chi era Placidia, la donna che ha dato il nome a un luogo così fascinoso? Di certo era una persona intelligente e di forte carattere, come ce la mostra il ritratto arrivato fino a noi. Era anche una cristiana devota: lo provano le monete coniate in suo onore che portano sempre il simbolo della croce. Della sua vita non sappiamo tutto, ma ce n’è abbastanza per ricavarne un serial televisivo di venti puntate.

Era nata nella reggia imperiale, “nella porpora” come si diceva allora, figlia di Teodosio I il Grande, l’ultimo a riunire sotto il suo scettro l’Impero romano d’Oriente e quello d’Occidente. A 15 anni è a Milano, dove assiste alla morte del padre. Tre anni dopo è a Roma, assediata dai goti. Qui vive un’esperienza dolorosa: il senato condanna a morte Serena, sua cugina prima e compagna d’infanzia, accusata di avere cospirato con i nemici. I senatori chiedono l’assenso di Placidia, membro della famiglia imperiale. La giovane principessa lo dà e manda la sua diletta Serena al patibolo. Prima che Roma venga espugnata e saccheggiata, Placidia viene catturata dai barbari che se la portano prigioniera in giro per mezza Europa. È una preda preziosa: il re dei goti, Ataulfo, se la sposa. Hanno un bambino che però muore a un anno di età. Subito dopo Placidia perde anche il marito, ucciso in una congiura. Il nuovo re, Sigerico, la oltraggia costringendola a percorrere a piedi 20 chilometri mentre lui la segue trionfante a cavallo.

Sigerico assassina poi i cinque figli di primo letto, e ancora in tenera età, di Ataulfo, strappandoli dalle braccia di un vescovo presso il quale si erano rifugiati. È troppo anche per i goti: che lo ammazzano e poi si liberano di Placidia spedendola all’imperatore (che adesso è Onorio, suo fratellastro) in cambio di una grossa quantità di granaglie e di un trattato di pace. Onorio costringe Placidia a sposare Costanzo III, comandante in capo dell’esercito romano e poi associato al trono dell’impero di Occidente. A lei viene conferito il titolo di Augusta, cioè imperatrice. Costanzo III muore nel 421 e lei diventa reggente dell’impero per conto del loro figlio, Valentiniano III, che ha quattro anni. Parte per Ravenna con il bambino, una figlioletta e una flotta da guerra per liberare la città dagli usurpatori che se ne sono impadroniti. Fa naufragio in Adriatico. Lei e i bambini si salvano per miracolo: come ringraziamento, farà costruire a Ravenna la chiesa di San Giovanni Evangelista.

Non tutti le hanno voluto bene: una volta fu allontanata da Roma perché accusata di rapporti incestuosi con il fratellastro imperatore. Gli storici ritengono che sia stata una calunnia. Riuscì a tenere lontani dall’Italia gli unni versando loro una forte somma di denaro: morì nel 450, un anno prima che quel popolo barbaro, temuto più di ogni altro, piombasse come una catastrofe al di qua delle Alpi. Vicende di ferro e di sangue che ci illustrano meglio dei trattati di storia che cosa era Ravenna capitale dell’Impero romano d’Occidente: lo fu dal 402 al 476, per diventare poi la capitale del regno degli Ostrogoti, prima di essere la sede del governo bizantino in Italia fino al 751, a capo di quella che fu chiamata la Pentapoli. Poi Ravenna fu contesa da longobardi e franchi, e questi ultimi la cedettero al papa nel 796. Ma a quel punto, privata del porto ormai interrato dalle piene dei fiumi, con i suoi tesori saccheggiati e dispersi, Ravenna era ridotta a poca cosa.

Oggi possiamo soltanto immaginare il periodo del suo massimo splendore attraverso i monumenti superstiti, otto dei quali sono stati dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Quei secoli di sconvolgimenti e di violenze ci parlano oggi attraverso opere d’arte che ispirano solo armonia, concordia, serenità: certo fanno riferimento a una realtà ultraterrena, quella terrena era meglio non rappresentarla.

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